La storia letta sui giornali dell'epoca
Il 28 giugno 1914, uno studente uccise l'erede al trono d'Austria e sua moglie. Agiva agli ordini dell'organizzazione "Mano nera" e credeva di compiere una missione patriottica. Non immaginava neppure che i colpi della sua pistola avrebbero scatenato una guerra mondiale.
Quel 28 giugno 1914, a Sarajevo, c'era "un attentatore dietro ogni albero". Ma nessuno somigliava ai terroristi d'oggi. La violenza non era ancora diventata una tecnica, le armi automatiche leggere non esistevano, l'automobile era privilegio di pochi. Le stesse etichette politico-ideologiche del terrorismo apparivano, a modo loro, semplici e chiare: i sette giovani che, appostati lungo la strada con in tasca una pistola o una bomba a mano, attendevano il corteo dell'Arciduca Ereditario d'Austria, Francesco Ferdinando, in visita nel capoluogo bosniaco, erano convinti di compiere una "missione nazionale". Che stessero per dar fuoco al mondo non lo sospettavano neppure.
Forse avrebbero potuto immaginarlo i loro mandanti della "Mano nera", la società segreta degli ufficiali serbi, nata come emanazione del gruppo che nel 1903 aveva trucidato il re Alessandro Obrenovic e la regina Draga per mettere sul trono il proprio capo Petar Karageorgevic. Ma quella gente non si curava degli equilibri europei. Era fanaticamente convinta che la Serbia fosse destinata a diventare "il Piemonte dei Balcani", e sognava un impero slavo esteso - se non proprio "dalla vetta del Triglav al Mar Nero", come aveva scritto il loro ideologo Garasanin - almeno "dalla Dalmazia a Salonicco", come tendeva a lasciar sperare il rappresentante diplomatico dello zar, barone Hartwig.Un importante passo avanti era stato compiuto l'anno prima, quando gli Stati balcanici, scesi in guerra tutti quanti contro la Bulgaria, le avevano tolto i frutti della vittoria riportata sui turchi nel 1912, e si erano spartiti il bottino. Quasi la metà della Macedonia era finita sotto il dominio di Belgrado, mentre il resto era andato alla Grecia, salvo una piccola parte rimasta in mano bulgara. Non si era ancora a Salonicco, ma la frontiera correva a settanta chilometri dalla città.
Raggiunto per il momento l'obiettivo a sud, gli sguardi correvano a ovest, verso l'Impero austro-ungarico, grande nemico dello "jugoslavismo". E in tutto l'Impero, l'uomo più pericoloso era l'erede al trono Francesco Ferdinando - un erede prossimo, dati gli 84 anni di Francesco Giuseppe - che caldeggiava il progetto di trasformare la monarchia da "duplice" in "triplice", aggregando al governo, come "soci alla pari" degli Austriaci e Ungheresi, anche i popoli slavi dell'Impero. Quel pomeriggio poteva essere la fine dei sogni di Belgrado.
La monarchia asburgica contava tra i suoi sudditi oltre 7 milioni di "slavi del sud" (Sloveni, Bosniaci e Croati) che, a differenza dei Serbi, greco-ortodossi, erano in maggioranza cattolici e in piccola parte musulmani. Ma a distinguerli non erano soltanto le questioni religiose o l'uso dell'alfabeto latino al posto di quello cirillico, era il livello di vita e, si può dire, di civiltà. La Serbia era in stato di sottosviluppo e subiva ancora le disastrose conseguenze della dominazione turca. La Croazia e la Slovenia, invece, avevano raggiunto un alto grado di benessere ed erano, da secoli, inserite nel mondo culturale europeo. Perfino l'arretratissima Bosnia, sotto amministrazione austriaca da soli 36 anni, aveva fatto progressi enormi e avevaavuto le sue ferrovie e le sue scuole..
Devastazioni a Sarajevo dopo i tumulti scoppiati nei giorni dell'attentato contro Francesco Ferdinando.
Eppure, buona parte di quelle popolazioni guardava davvero alla Serbia come gli uomini del Risorgimento italiano avevano guardato al Piemonte. C'erano in questo stato d'animo componenti diverse: il complesso d'inferiorità verso i "fratelli slavi" che avevano saputo farsi uno stato; l'ammirazione per le loro vittorie militari; l'influenza della Russia che da qualche anno, auspice Hartwig, aveva scelto la Serbia come un suo pupillo balcanico. Ma c'era soprattutto quello che era il male comune di tutte le popolazioni "soggette" all'Impero: la sensazione di essere politicamente emarginati, se non addirittura colonizzati. Il "trialismo" di Francesco Ferdinando poteva dunque, in teoria, risolvere il problema degli Slavi, come il "dualismo" aveva risolto quello degli Ungheresi. E allora la Serbia avrebbe cessato di essere un polo d'attrazione anzi, sarebbe stata attratta nell'orbita di Vienna. Per questo gli uomini della "Mano nera" avevano decretato la morte dell'Arciduca, approfittando della sua visita in una regione in cui potevano contare su un buon numero di adepti. L'organizzazione dell'attentato era stata curata da alcuni degli ufficiali più esperti: il maggiore Voja Tankosic, che aveva fornito le armi e il colonnello Dragutin Dimitrievic-"Apis", capo del servizio segreto serbo e deus ex machina della "Mano nera". Gli esecutori erano stati reclutati per lo più in quei covi di fanatici che sono, da sempre, gli ambienti studenteschi.
Una delle ultime foto dell'Arciduca
Ed eccoci al 28 giugno 1914. Sull'Appel Kai, il lungofiume che conduce al Municipio di Sarajevo, gli attentatori sono ai loro posti: Mehmed Mehmedbasic e Vaso Cubrilovic presso il ponte Cumurija, insieme col tipografo Nedjelko Cabrinovic; di fronte, Cvetko Popovic e Danilo Ilic; più avanti, vicino al Ponte Latino, Gavrilo Princip; infine, presso il Ponte Imperiale, Trifko Grabez. Posseggono in tutto tre pistole e sei bombe, oltre a qualche compressa di cianuro per uccidersi prima di essere presi.
Il corteo, con l'Arciduca e la moglie Sophia, deve percorrere l'Sppel Kai fino al palazzo del governo - il Konak - e poi ritornare un tratto indietro per immettersi sulla Frank-Josefstrasse. Francesco Ferdinando, reduce dalle manovre militari di Llidze, viaggia su una Graef & Stift modello 1910, che appartiene al conte Boos Waldeck di Gorizia ed è guidata da un autista triestino, certo Carlo Cirillo Diviak. La vettura ha la capote abbassata, in modo che il pubblico possa vedere gli ospiti imperiali. Non sono state prese misure di sicurezza, a parte l'arresto "preventivo" di una cinquantina di noti nazionalisti panserbi, ordinato dal governatore Potjorek.
La prima bomba la lancia Cabrinovic. L'ordigno vola sulla capote ripiegata dell'automobile e Francesco Ferdinando lo fa ruzzolare a terra con un gesto della mano. L'esplosione avviene sotto la seconda vettura del corteo e ferisce gravemente il tenente colonnello Merizzi e, più leggermente, il conte Boos Waldeck. La folla ondeggia, gli attentatori schierati lungo il percorso sono in imbarazzo. Uno, nella calca, non riesce a estrarre di tasca la sua bomba; un altro prova pietà per l'Arciduchessa e non spara. Mehmedbasic vede nei paraggi un poliziotto di sua conoscenza e se la svigna. Gavrilo Princip che, udendo l'esplosione ha pensato che l'attentato sia riuscito, abbandona il suo posto per recarsi al ponte Cumurija, dove ha l'ordine di uccidere Cabrinovic: gli uomini della "Mano nera" vogliono essere sicuri che nessuno "canti" e Cabrinovic è quello che dà meno affidamento.
L'Arciduca Francesco Ferdinando con la moglie e i figli.
A destra l'assassino
Il principe si è appena mosso che il corteo gli passa davanti. Conta le macchine, si accorge che ne manca una, ma nota anche che quella dell'Arciduca c'è, ma lui è troppo lontano per fare fuoco. Disperato, pensa di togliersi la vita - il suicidio è nella sua mente una sorta di mistica ossessione - ma poi cambia idea. Se la svigna anch'egli e va a rifugiarsi in una birreria, mentre sulla vettura, Francesco Ferdinando e Sophia seggono impassibili.
Quando arrivano al Honak, l'Arciduca si rivolge al sindaco di Sarajevo Ciaric, che gli si è fatto incontro mortificato: "Signor sindaco - dice severo - uno viene in visita di cortesia ed è accolto con le bombe. E' vergognoso". Quindi, in tono protocollare: Sta bene, iniziate il vostro discorso". Il sindaco con voce esitante legge: "Altezza imperiale, Altezze! I nostri cuori ridondano felicità per la vostra graziosa visita". Francesco Ferdinando attende la fine del discorso, che dopo l'attentato suona quasi grottesco, poi risponde ringraziando e pronuncia in serbo-croato la frase conclusiva: "Mi permetto di chiederle di porgere i miei cordiali saluti agli abitanti di questa bella capitale e di assicurarle la mia la mia immutata stima e il mio favore".
Queste, secondo Joachim Remag, sono le ultime parole ufficiali pronunciate da Francesco Ferdinando. L'Arciduca detta un telegramma all'imperatore Francesco Giuseppe che esorta a non dare eccessiva importanza all'attentato, poi chiede di andare all'ospedale dove è stato ricoverato il tenente colonnello Merizzi. In quel momento, qualcuno del seguito gli dice: "Altezza, il vostro attentatore è stato arrestato" (la polizia ha preso infatti Cabrinovic all'istante). l'Arciduca ribatte: "Vedrete che invece di metterlo sottochiave gli daranno una medaglia".
Ormai si è fatto tardi, Francesco Ferdinando rinuncia alla visita al Museo nazionale perché vuole arrivare in tempo al banchetto ufficiale offerto dal governatore e il corteo riparte. Sul predellino della vettura dell'Arciduca ha preso posto il conte Harrach, fedele amico di Francesco Ferdinando, per proteggerlo con il proprio corpo. E qui avviene il fatale errore. La prima vettura del corteo, il cui autista ignora che la visita al museo è stata soppressa, svolta nella strada dove si trova la birreria in cui si è rifugiato Princip. Il giovane attentatore è al colmo della desolazione: oltre a tutto ha incontrato un conoscente chiacchierone, del quale non sa come sbarazzarsi. Quando vede arrivare il corteo balza in piedi, si avvicina, ma non ha speranze, le automobili sfileranno troppo rapidi e troppo distanti per poter tentare qualcosa.
Ed ecco che, proprio mentre la prima vettura sta oltrepassando la birreria, il governatore Potjorek grida all'autista: "Non di qua, imbecille, torna indietro". L'automobile rallenta, l'autista manovra per invertire la direzione di marcia e la seconda automobile - quella dell'Arciduca - fa lo stesso. Il corteo è praticamente fermo e in quell'istante si sentono gli spari.
Princip ha colto al volo l'occasione, è saltato sul predellino della Graef & Stift e ha fatto fuoco. L'Arciduca è colpito alla gola, sua moglie all'addome. "Ma che succede?", fa in tempo a dire Sophia prima di perdere i sensi, mentre Francesco Ferdinando, con la voce resa gorgogliante dalla ferita: "Sopherl, Sopherl, non morire! Vivi per i nostri figli!" (Sophrel è un diminutivo affettuoso tipicamente viennese).
Il conte Harrach, che come guardia del corpo è servito ben poco, domanda ansioso: "Altezza, soffre molto?" "Non è niente, non è niente", ribatte in un soffio Francesco Ferdinando. Lui e la moglie muoiono prima di giungere all'ospedale. "La sola persona che avrebbe potuto tenere l'Austria fuori dalla guerra con la Serbia era stata uccisa da un serbo per la gloria del suo popolo", noterà Edward Crankshaw nella sua Caduta della Casa di Asburgo.
Gli attentatori, abbandonati a se stessi da Dimitrievic e Tankosic, sono catturati in breve tempo. Nessuno - a parte Princip, cui però hanno fatto saltare di mano l'arma - si è ucciso come prescrivevano gli ordini. In compenso, qualcuno parla, le responsabilità della "Mano nera" vengono alla luce e con esse, le responsabilità della Serbia, perché la società segreta comprende nelle sue file uomini che ricoprono cariche militari e governative. Sullo stesso primo ministro serbo Pasic gravano pesanti sospetti.
A questo proposito, l'ex ministro della Pubblica Istruzione Ljuba Jovanovic ha rivelato nel 1924 un episodio significativo: Pasic doveva essere al corrente delle trame terroristiche in Bosnia perché, quando seppe che Francesco Ferdinando si sarebbe recato a Sarajevo, incaricò il proprio rappresentante diplomatico a Vienna di protestare contro lo svolgimento di manovre militari sul confine serbo e di avvertire il governo austriaco che la vita dell'Arciduca era in pericolo. Il diplomatico serbo non riuscì a farsi ricevere dal ministro degli Esteri, ma parlò con quello delle Finanze al quale fece - inascoltato - un discorso che alludeva a possibili reazioni popolari ("qualche soldato bosniaco potrebbe mettere nel suo fucile un proiettile vero al posto della cartuccia a salve") e concludeva con le parole: "Sarebbe ragionevole che l'Arciduca Francesco Ferdinando non si recasse a Sarajevo". L'episodio, anche se Pasic si affrettò a smentirlo, illustra perfettamente la sua tattica, che era quella di rinfocolare il nazionalismo serbo senza rompere, sul piano formale, le buone relazioni con l'Austria.
L'eco si Sarajevo intanto stava ripercorrendo l'Europa, Francesco Giuseppe, nel ricevere la notizia, aveva chinato gravemente la testa e subito dopo, fedele al personaggio che incarnava da tanti anni, l'aveva rialzata chiedendo: "Le manovre si sono concluse con successo?" Ma nessun altro aveva la sua calma disumana e, quel che è peggio, nessuno sembrava conscio della gravità della situazione. Il Gran Cerimoniere di Corte, principe di Montenuovo, aveva trovato il modo di sfogare, anche a fronte della morte, i suoi meschini rancori nei confronti di Francesco Ferdinando, al quale non perdonava il matrimonio morganatico con Sophia Chotek, che veniva dalla piccola nobiltà e i funerali si erano svolti di notte, in una forma semiclandestina e quasi oltraggiosa. Il capo dello Stato Maggiore austriaco, maresciallo Conrad von Hotzendorff, andava chiedendo di "schiacciare la Serbia" con la stessa insistenza con cui, qualche anno prima, aveva chiesto una "guerra preventiva" contro l'Italia. Il cancelliere e ministro degli Esteri, conte Berchtold, un diplomatico di vecchio stampo, amante delle donne e dei cavalli, inviava a Berlino appelli pressanti che si richiamavano di volta in volta ai trattati di alleanza e alla solidarietà germanica. A Parigi, il presidente della Repubblica Poincaré si apprestava a compiere in Russia una visita che, date le circostanze, aveva tutta l'aria di una sfida. A Pietroburgo i giornali panslavisti accusavano l'Austria di voler strumentalizzare l'attentato per togliere la libertà al popolo serbo. L'Europa, all'apice della sua potenza e della sua prosperità, stava scivolando inconsapevolmente verso una guerra che l'avrebbe devastata.
Per comprendere il clima di quei giorni bisogna accennare ad alcuni sviluppi precedenti. Nel 1871 l'Inghilterra aveva accettato la creazione dell'Impero Germanico poiché riteneva di poterlo usare contro la Francia e la Russia, salvo a scagliargliele addosso entrambe se fosse divenuto troppo potente. Bismarck lo sapeva e, alla politica inglese di Balance of Power, aveva risposto con la sua Realpolitik, i cui obiettivi principali erano tre: impedire ogni intesa tra la Francia e la Russia, tenere sotto controllo l'irrequieta Austria-Ungheria e non irritare l'Inghilterra. Questa linea di condotta, seguita per quasi vent'anni, aveva fatto del Cancelliere tedesco il garante della pace europea. Poi, nel 1980, Guglielmo II aveva preso in mano le redini inaugurando una baldanzosa e spesso avventata politica di espansione. Aveva conquistato colonie e costruito una temibile flotta, mentre l'industria tedesca, in pieno boom, invadeva il mondo con i suoi prodotti, senza curarsi troppo delle reazioni che suscitava. Così, a 14 anni dalla caduta di Bismarck, i pericoli che egli aveva saputo evitare erano diventati realtà: l'Austria era sfuggita al controllo ("aveva legato Berlino al suo carro", come scrisse l'ambasciatore von Lichnowsky) e la paventata alleanza antitedesca era in atto e comprendeva non solo la Francia e la Russia ma la stessa Inghilterra.
Per comprendere il clima di quei giorni bisogna accennare ad alcuni sviluppi precedenti. Nel 1871 l'Inghilterra aveva accettato la creazione dell'Impero Germanico poiché riteneva di poterlo usare contro la Francia e la Russia, salvo a scagliargliele addosso entrambe se fosse divenuto troppo potente. Bismarck lo sapeva e, alla politica inglese di Balance of Power, aveva risposto con la sua Realpolitik, i cui obiettivi principali erano tre: impedire ogni intesa tra la Francia e la Russia, tenere sotto controllo l'irrequieta Austria-Ungheria e non irritare l'Inghilterra. Questa linea di condotta, seguita per quasi vent'anni, aveva fatto del Cancelliere tedesco il garante della pace europea. Poi, nel 1980, Guglielmo II aveva preso in mano le redini inaugurando una baldanzosa e spesso avventata politica di espansione. Aveva conquistato colonie e costruito una temibile flotta, mentre l'industria tedesca, in pieno boom, invadeva il mondo con i suoi prodotti, senza curarsi troppo delle reazioni che suscitava. Così, a 14 anni dalla caduta di Bismarck, i pericoli che egli aveva saputo evitare erano diventati realtà: l'Austria era sfuggita al controllo ("aveva legato Berlino al suo carro", come scrisse l'ambasciatore von Lichnowsky) e la paventata alleanza antitedesca era in atto e comprendeva non solo la Francia e la Russia ma la stessa Inghilterra. Apparentemente, l'Europa continuava a vivere in quel periodo di serenità che gli storici considerano la sua stagione d'oro. Ma s'era scatenata la corsa agli armamenti e la tensione cresceva. La guerra. insomma. era nell'aria anche se al momento nessun governo la voleva, tanto che, forse, nemmeno l'assassino di Francesco Ferdinando sarebbe bastato a provocarla se a Belgrado e a Vienna non si fossero verificate alcune situazioni particolari.
All'indomani dell'attentato tutti erano convinti che l'Austria avesse il diritto di esigere una riparazione e la Serbia il dovere di fornirgliela. Gli inglesi esercitarono in tal senso pressioni a Belgrado, e perfino Hartwig gonsigliò la prudenza: nessuno, a quei tempi, voleva passare per un difensore di regicidi. Contemporaneamente però il governo di Pietroburgo, la stampa russa e lo stesso Hartwig, parlarono e agirono in modo tale da dare a Pasic la certezza che la Russia non avrebbe tollerato "un'offesa all'onore della Serbia o una violazione della sua sovranità". Questa certezza influì sul suo atteggiamento, che sarebbe stato meno fiero se la Serbia si fosse trovata sola di fronte all'esecrazione generale.
Lo stesso accadde dal lato opposto. Difficilmente l'Austria si sarebbe imbarcata in un'avventura bellica se Berlino non le avesse promesso l'appoggio del suo esercito nel caso di un intervento russo. Ma la promessa - il famoso "assegno in bianco" - ci fu, e consentì a Berchtold di ostentare un'intransigenza che agli occhi di buona parte dl mondo finì per trasformare la Serbia da colpevole in vittima.
Si giunse così all'ultimatum austriaco del 23 luglio. Qualche giorno prima Hartwig, resosi conto del pericolo, aveva suggerito ai governanti serbi di compiere un atto di buona volontà, sciogliendo spontaneamente la "Mano nera". Ma un infarto lo aveva colto mentre era a colloquio con l'ambasciatore austriaco e la sua morte aveva dato via libera ai "falchi". L'ultimatum sembrava dar loro ragione. L'Austria chiedeva la consegna di Tankosic e di altri, la condanna di tutti gli ufficiali della "Mano nera" (da pubblicare sull'ordine del giorno delle forze armate), la repressione di ogni propaganda antiaustriaca e la partecipazione di ufficiali austro-ungarici alle indagini sull'attentato e i suoi mandanti. Il tempo per la risposta era di 48 ore.
A Berlino, il Cancelliere von Bethmann Hollweg - l'uomo dell'assegno in bianco - propose una mediazione. A Pietroburgo il ministro degli Esteri Sazonov, che aveva già deciso il pieno appoggio alla Serbia, aggirò la proposta lanciando l'idea di una conferenza internazionale. A Londra, il ministro degli Esteri Sir Edward Grey, cercò di ottenere dai Serbi una risposta conciliante: "Se la guerra scoppierà, sarà la maggior catastrofe che abbia mai colpito il mondo", confidò all'ambasciatore tedesco, principe von Lichnowsky, che la pensava allo stesso modo.
La risposta di Pasic corrispose all'incirca alle richieste inglesi: la Serbia accettava tutte le condizioni tranne due (riguardanti l'intervento di ufficiali austriaci a Belgrado) sulle quali però era pronta a trattare. Ma Berchtold e Hotzendorff volevano ormai la guerra. La risposta fu dichiarata insoddisfacente. L'ambasciatore austriaco lasciò Belgrado. Francesco Giuseppe, stando a quanto narra il conte Corti, ebbe un istante di resipiscenza: "la rottura dei rapporti diplomatici non significa ancora la guerra". Ma la Serbia mobilitò e quel "gesto di sfida" ruppe ogni indugio. Poche ore dopo anche l'imperatore firmò l'ordine di mobilitazione. Il 28 luglio l'Austria dichiarò guerra alla Serbia: "Ho fede nell'onnipotente affinché conceda la vittoria alle nostre armi", diceva il proclama di Francesco Giuseppe. La Russia mobilitò e la Germania dichiarò guerra alla Russia: l'assegno in bianco fu pagato e il cannone tuonò in tutta Europa.
Si combatteva da più di tre mesi quando finì il processo contro gli attentatori di Sarajevo, passati ormai in secondo piano. Quatto furono condannati a morte, altri tre, minorenni, ebbero vent'anni. Princip era uno di loro, ma non voleva vivere. Tentò di impiccarsi in carcere e morì all'ospedale il 28 aprile 1918, sei mesi prima del crollo dell'Austria-Ungheria. Gli Jugoslavi lo celebrarono eroe e su di lui fiorì una letteratura. Le impronte delle sue scarpe vennero impresse nel cemento del marciapiede, nel punto in cui aveva compiuto l'attentato. In realtà egli fu - forse più di ogni altro personaggio della storia - uno strumento del destino. Un episodio poco noto, narrato da Borivoje Jevtic, rivela uno dei tratti fondamentali della sua personalità: prima dell'attentato, quando le manovre erano ancora in corso, Francesco Ferdinando e la moglie si erano recati in forma privata al bazar di Sarajevo per acquistare oggetti d'antiquariato. Tra la folla che li aveva riconosciuti c'era, per caso, anche Gavrilo Princip, che si era trovato così faccia a faccia con l'odiato Asburgo. Portava la pistola e avrebbe potuto ucciderlo con estrema facilità. Ma gli ordini del colonnello Dimitrievic-"Apis" erano diversi, e lui non si sentì di trasgredirli.
Testo di Carlo Belihar