La fortezza rinascimentale di Francesco di Giorgio Martini

Alla metà del XV secolo, l'architettura militare conobbe numerose innovazioni dovute principalmente all'impiego massiccio delle armi da fuoco. Questa straordinaria innovazione comportò una nuova organizzazione del sistema guerresco, precedentemente improntato alla difesa fornita da alte e strette torri e all'uso della catapulta. La struttura fortificata cominciò gradualmente ad adattarsi ai cannoni di una controffensiva più dinamica, in grado di garantire direzioni di tiri incrociati, da qualunque parte giungesse l'attacco. L'antica terra di Montefeltro, incuneata tra Marche, Romagna e Toscana e inglobata dal Duca Federico (1422-1482) nel ducato di Urbino, annoverava un cospicuo numero di rocche, edificate in epoca medioevale per il controllo e la salvaguardia di un territorio impervio che, altrimenti, avrebbe prestato facilmente il fianco a incursioni nemiche. Tuttavia, le obsolete strutture fortificate già esistenti non potevano assicurare la solida autodifesa di cui necessitava il capitano d'arme Federico da Montefeltro che, per mezzo di celebri imprese guerresche, aveva costituito uno stato forte e compatto. Da qui l'ambizioso progetto: trasformare, con l'ausilio di architetti e ingegneri esperti di balistica, l'originario scacchiere fortificato in un nuovo strumento di difesa bellica, idoneo a garantire inviolabilità ai confini del ducato.
Durante le guerre di confine, Federico aveva sperimentato le qualità difensive della vetta sulla quale si ergeva maestosa la fortezza di San Leo ed aveva deciso di farne il propugnacolo della linea fortificata più avanzata, quella che proteggeva la valle del Marecchia. Il suo potenziamento, insieme a quello di altre roccaforti della regione, venne affidato all'ingegno del giovane architetto senese Francesco di Giorgio Martini (1439-1501) che, dal 1472 circa, entrò a far parte dell'illuminata corte di Federico.
La fortezza di San Leo, il possente apparato difensivo che sembra essere un prolungamento del masso che lo sostiene, esprime la capacità di Francesco di Giorgio di adattare al sito innovative forme architettoniche, come la pianta poligonale e la particolare forma angolata della doppia cortina muraria, tesa in punta e rivolta verso il centro abitato.
Come la maggior parte delle rocche rinascimentali, anche quella di San Leo si presenta isolata e priva delle opere difensive avanzate. Purtroppo, gli avamposti prospicienti i precipizi, situati lungo i margini del ripiano sottostante la fortezza, sono andati perduti e nessuna traccia è rimasta del fossato che circondava il lato sud-ovest, essendo le altre parti costruite su vertiginosi dirupi che assolvevano la funzione di mura naturali. Il fossato era protetto dal ciglio, una sorta di argine che ne impediva l'attraversamento e consentiva ai soldati di combattere anche in posizione eretta. Era, inoltre, corredato di capannati o casematte, bassi dispositivi a forma di condotto che esternamente sembravano abitazioni mentre, all'interno, risultavano suddivisi in cunicoli a modo di fortificazione. Dotati di cannoniere per le bocche da fuoco, essi venivano utilizzati per controllare con tiri radenti le zone adiacenti il fossato, oppure venivano costruiti per rafforzare la difesa agli angoli delle mura e, guarniti da un manipolo di soldati equipaggiati con piccole armi da fuoco, servivano soprattutto per la copertura dettagliata di aree piuttosto vaste che i più grandi cannoni non riuscivano ad effettuare. Un ponte levatoio, di cui sono ancora visibili i canali di scorrimento dei perni che ne consentivano il movimento, garantiva alle milizie l'agevole superamento del fossato.
L'ingresso alla fortezza era efficacemente difeso dal grande torrione circolare che, situato in posizione ribassata rispetto alla cortina angolata, provvisto di una poderosa base a scarpa e dotato di cannoniere, protraendosi dalle mura, offriva una sicura copertura grazie all'uso dell'artiglieria e delle armi da fuoco. Il controllo di questo primo accesso era reso più semplice dalle due porte-saracinesca che contenevano uno spazio a cielo aperto sul quale veniva orientata la traiettoria del fuoco. Oltrepassata quest'area era possibile accedere alla prima piazza d'Armi: mentre a sud essa era delimitata da una cortina muraria aggettante che terminava con un torrioncino circolare di cui perdura soltanto la base a scarpa, a est, invece, era resa inaccessibile da un vertiginoso precipizio. Una terza porta-saracinesca ostacolava il passaggio alla seconda piazza d'Armi, rivolta a ovest e distesa tra due possenti baluardi difensivi, mentre un portale in arenaria con arco a sesto acuto proteggeva l'accesso alla terza piazza d'Armi e, contemporaneamente, introduceva all'esteso mastio, innestato sul punto più alto della vetta.
Il sistema difensivo ideato da Francesco di Giorgio Martini per San Leo concretizza la genialità e l'abilità tecnica del grande artista nel dare luogo a nuove forme architettoniche. Come più volte enunciato dallo stesso architetto senese nei Trattati, la compagine fortificata di San Leo è la mirabile espressione del particolare rapporto che viene a crearsi tra la città e la sua rocca: "Adunque la rocca de' essere principale membro del corpo della città, siccome el capo è principal membro di tutto il corpo. E come perso quello perso el corpo, così persa la fortezza persa la città da essa signoreggiata".

Piano terra dell'ala ducale
Si accede al piano terreno della fortezza, detta ala ducale o residenza dei duchi di Montefeltro, attraverso un portale in arenana con arco a tutto sesto, sormontato dalla cornice di uno stemma scolpito nella pietra con incise le date celebrative 1479 e 1516. La prima data è riferibile al complesso intervento di ristrutturazione effettuato da Francesco di Giorgio Martini per il duca Federico da Montefeltro, mentre la seconda potrebbe corrispondere ad un successivo riadattamento della fortezza, collegato alla dominazione medicea.
Alcuni elementi come la finestra a strombatura interna, murata nella seconda stanza o la ghiera di un'arcata, in prossimità del pavimento della sala angolata unico resto dell'ambiente sotterraneo in cui sono state ritrovate altre finestre d'epoca romanica indicano che questa parte della rocca costituiva il nucleo più antico della fortificazione, probabilmente d'origine romana, profondamente rimaneggiato durante i secoli successivi.
Nel muro interno del corridoio dell'ala ducale sono visibili le arcate che, originariamente, si aprivano a porticato sulla terza piazza d'Anni detta anche cortile d'onore.
Il pozzo prospiciente la costruzione rinascimentale è collegato ad ampie cisterne di raccolta delle acque piovane, scavate direttamente nella roccia che compone il masso, in maniera da garantire un cospicuo e costante approvvigionamento idrico, indispensabile per fronteggiare lunghi periodi di assedio.
Stanze della residenza ducale (Secc. XV-XVI)
Le stanze che compongono la residenza ducale traggono il nome dalla consuetudine che qui voleva la dimora del castellano e dal fatto che, periodicamente, ospitavano i duchi di Urbino durante i loro soggiorni a San Leo. E' probabile che sin dall'alto medioevo i signori di San Leo alloggiassero nella fortezza.
La tradizione vuole che lo stesso re longobardo Berengario II e la regina Willa avessero arredato sontuosamente questi appartamenti. Una leggenda, poi, racconta che la regina abbia nascosto qui i suoi gioielli, durante l'assedio sostenuto da Ottone I di Sassonia contro Berengario nel 962, allorquando San Leo venne proclamata capitale del Regno d'Italia.
Grazie all'intervento di ristrutturazione della fortezza effettuato da Francesco di Giorgio Martini, le stanze vennero opportunamente rimodernate secondo un assetto rinascimentale. Vi si conservano imponenti camini in pietra del Cinquecento, alcuni dei quali sono stati sostituiti in epoche successive con manufatti antichi provenienti da altre sedi. Durante la dominazione fiorentino-medicea, la residenza venne nuovamente ristrutturata, come testimonia lo stemma mediceo con le caratteristiche sei palle, abraso sull'architrave in pietra di una porta che immette nell'adiacente corridoio. Le ampie finestre arcuate che affacciano sulla terza piazza d'armi presentano i caratteri tipici dell'architettura rinascimentale (ripristinati nei restauri novecenteschi della fortezza).
Il Bettolino
Il caratteristico nome di questa stanza appare dipinto tra due pampini d'uva sulla porta d'ingresso. Esso sottende alla sua funzione di luogo di ricreazione della guarnigione di stanza nel carcere pontificio. E' probabile che il Bettolino, provvisto di un bel camino rinascimentale in pietra, funzionasse come una vera e propria osteria, dove i soldati potevano trovare confortevole ristoro.
Il Bettolino mantenne la funzione di osteria anche agli inizi del nostro secolo quando, per un breve periodo, la fortezza venne utilizzata quale abitazione dalla popolazione del sobborgo dei Quattroventi, rimasta senza casa a causa del terribile crollo della rupe leontina.
Cella di Felice Orsini e di altri patrioti del risorgimento
In antico, in questa ala della fortezza era situata la cappella probabilmente dedicata a Santa Barbara, protettrice degli armigeri.
La ristrutturazione del Valadier ha trasformato anche questa parte dell'edificio in prigione. Questa cella è famosa per aver ospitato Felice Orsini, patriota risorgimentale nato a Meldola (FO) nel 1819. Fin da giovane, egli aveva partecipato all'attività carbonara; arrestato a Pesaro nel 1844 venne tradotto alla fortezza di San Leo nel giugno dello stesso anno, ove fu rinchiuso per circa cinque mesi insieme ai patrioti riminesi Andrea Borzatti ed Enrico Serpieri. La sua fama è legata principalmente all'attentato alla vita dell'imperatore Napoleone III, ideato il 14 gennaio 1858. In seguito al fallimento dell'azione venne condannato a morte e,due mesi dopo, ghigliottinato in Francia.
La traduzione dei patrioti romagnoli nella fortezza leontina è illustrata in un bel dipinto di Guglielmo Bilancioni, conservato a Rimini dagli eredi del pittore.
Cella di Cagliostro (detta del Pozzetto)
Ubicata nella parte centrale del mastio, l'angusta cella del Pozzetto (metri 3x3) ha un'unica finestra, munita di un triplice ordine di inferriate, rivolta verso la Pieve e la Cattedrale, unica visione possibile per il recluso.
Si accede alla cella da un'apertura laterale praticata recentemente ma, al tempo di Cagliostro, l'unico varco era costituito da una botola collocata nel soffitto, da cui fu calato il prigioniero e attraverso la quale venivano somministrate le razioni di cibo. In seguito ad alcune voci sull'organizzazione di una fuga da parte di alcuni sostenitori di Cagliostro, nonostante fossero state prese tutte le misure necessarie per scongiurare qualunque tentativo di evasione, il conte Semproni, responsabile in prima persona del prigioniero, decise il suo trasferimento in questa cella, ritenuta ancor più sicura e forte di quella detta del Tesoro.
Del lungo periodo di reclusione, durato più di quattro anni, rimane testimonianza nell'Archivio di Stato di Pesaro, ove sono conservati gli atti riguardanti l'esecuzione penale ed il trattamento, improntato a principi umanitari, riservato al detenuto. Il 26 agosto 1795 il famoso avventuriero, ormai gravemente ammalato, si spense a causa di un colpo apoplettico. La leggenda che aveva accompagnato la sua fascinosa vita si impossessò anche della morte: dai poco attendibili racconti sulla sua presunta scomparsa giunti fino ai giorni nostri, è possibile intravedere il tentativo, peraltro riuscito, di rendere immortale, se non il corpo, almeno le maliarde gesta di questo attraente personaggio. L'atto di morte, conservato nell'archivio parrocchiale di San Leo, redatto in latino dall'arciprete Luigi Marini, rende giustizia alla veridicità delle vicende:
Giuseppe Balsamo, soprannominato Conte di Cagliostro, di Palermo, battezzato ma incredulo, eretico, celebre per cattiva fama, dopo aver diffuso per diverse Nazioni d'Europa l'empia dottrina della massoneria egiziana, alla quale guadagnò con sottili inganni un numero infinito di seguaci, incappò in varie peripezie, alle quali non si sottrasse senza danno, in virtù della sua astuzia e abilità; finalmente per sentenza della Santa Inquisizione relegato in carcere perpetuo nella rocca di questa città, con la speranza che si ravvedesse, avendo sopportato con altrettanta fermezza e ostinazione i disagi del carcere per quattro anni, quattro mesi, cinque giorni, colto da un improvviso colpo apoplettico, di mente perfida e cuore malvagio qual era, non avendo dato il minimo segno di pentimento, muore senza compianto, fuori della Comunione di santa M. Chiesa, all'età di cinquantadue anni, due mesi e diciotto giorni. Nasce infelice, più infelice vive, infelicissimo muore il giorno 26 agosto dell'anno suddetto verso le ore 22,45. Nella circostanza fu indetta pubblica preghiera, se mai il misericordioso Iddio volgesse lo sguardo all'opera delle sue mani. Come eretico, scomunicato, peccatore impenitente gli viene negata la sepoltura secondo il rito ecclesiastico. Il cadavere è tumulato proprio sulla estrema punta del monte che guarda ad occidente, quasi ad eguale distanza tra i due fortilizi destinati alle sentinelle, comunemente denominati il Palazzetto e il Casino, sul terreno della Reverenda Camera Apostolica il giorno 28 alle ore 18,15.

Spioncino della cella di Cagliostro (Cella del Pozzetto)
Durante la reclusione di Cagliostro questa cella non aveva una porta ma solo una botola nel soffitto da cui il prigioniero venne calato.
Lo spioncino permetteva un'ulteriore sorveglianza del recluso soprattutto per quanto riguardava lo spazio nei pressi della finestra che, essendo l'unica apertura verso l'esterno era considerata come la sola via per un'eventuale evasione.

Cella del tesoro dei duchi di Montefeltro (prima cella di Cagliostro)
La tradizione vuole che in quest'ambiente fosse conservato il tesoro dei duchi d'Urbino, durante i numerosi e ripetuti assalti sostenuti dalla fortezza leontina. La cella è stata ricavata dall'ampliamento quattrocentesco della fortezza, perpetrato da Francesco di Giorgio Martini, che inglobò nel possente rivellino triangolare, l'originaria torre angolare del mastio malatestiano. Il perimetro della torre medioevale, a pianta quadrata e base scarpata, è visibile nella cella, insieme ad una finestra trecentesca, sormontante la porta d'ingresso; è probabile che anche la porta appartenga all'assetto malatestiano e che, quindi, comunicasse con una ulteriore fortificazione esterna, non più esistente a causa del crollo della roccia avvenuto agli inizi dei nostro secolo.
All'ingresso della cella, si nota un'ampia iscrizione dipinta di difficile lettura ma che allude all'impossibilità di evadere dal terribile carcere di San Leo. La cella è divenuta famosa dopo che vi fu rinchiuso Giuseppe Balsamo alias Alessandro conte di Cagliost.ro. Innumerevoli biogralIe hanno cercato di fare chiarezza sull'affascinante e misterioso avventuriero che caratterizzò il secolo dei Lumi.
Taumaturgo, protagonista colto e raffinato del suo tempo, "amico dell'Umanità" oppure astuto e audace imbroglione, abile ciarlatano? Il quesito, finora, non ha avuto risposta certa: il mistero che da sempre avvolge le molteplici attività svolte da Cagliostro contribuisce a tenere vivo l'interesse su di lui. Nato a Palermo nel 1743, visse di espedienti durante la gioventù, divenendo un personaggio di spicco negli ambienti massonici dell'epoca. La sua fama di al
chimista e guaritore raggiunse le corti più importanti d'Europa, da Londra a San Pietroburgo, dove gli fu possibile stringere amicizie con personalità di spicco come Schiller e Goethe. Alla corte di Versailles conobbe il potentissimo cardinale di Rohan che lo coinvolse nel misterioso affaire do collier, un complotto che diffamò la regina Maria Antonietta e aprì la strada alla rivoluzione francese.
Sfidò apertamente la Chiesa fondando a Londra una loggia di Rito egiziano e assumendo il titolo di "Gran Cofto". Il Sant'Ufflzio non tardò a colpirlo: tratto in arresto il 27 dicembre 1789, fu rinchiuso nelle carceri di Castel Sant'Angelo. Il duro processo cui fu sottoposto si concluse il 7 aprile 1790 eon l'emissione di una condanna a morte per eresia e attività sediziose e con la distruzione, nella pubblica piazza, dei manoscritti e degli strumenti massonici. In seguito alla pubblica rinuncia ai principi della dottrina professata, Cagliostro fu graziato da papa Pio VI: la condanna a morte venne commutata nel carcere a vita, da scontare nelle anguste e tetre prigioni dell'inaccessibile fortezza di San Leo.
In attesa di essere definitivamente segregato nella cella del Pozzetto, l'illustre detenuto fu momentaneamente alloggiato nella cella del Tèsoro, la più sicura ma anche la più tetra ed umida dell'intera Fortezza. I soldati che giorno e notte svolgevano il servizio di guardia, avevano ricevuto ordine di non discorrere eon il prigioniero cui era stato interdetto anche l'uso della carta, della penna e dell'inchiostro: ne cosa ne persona riusciva a sfuggire.

Celle papaline (secc. XVIII-XIX)
Il fondamentale intervento di ristrutturazione della fortezza, perpetrato dall'architetto Giuseppe Valadier dopo il 1789, incise ampiamente sulle strutture architettoniche dell'ala nord-ovest.
Questa zona venne definitivamente adattata a prigione; le prime celle costruite vengono tradizionalmente chiamate celle papaline.
Si tratta di piccoli e angusti ambienti in cui è rimasto pressoché intatto l'intonaco originale, sul quale i prigionieri hanno tracciato graffiti, iscrizioni e disegni che, costituendo una testimonianza eccezionale della vita dei reclusi, saranno decifrati e resi pienamente visibili grazie ad un imminente restauro.